Appellandosi ad una lettura di comodo della Dichiarazione di Mosca rilasciata il 30 ottobre 1943 da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica, l’Italia rivendica il diritto di giudicare presso propri tribunali gli italiani accusati di crimini di guerra.
Per sostenere la sua posizione, nel 1946 il governo italiano istituisce presso il Ministero della Guerra un’apposita commissione con il compito di vagliare le accuse di crimini di guerra e stilare una lista di criminali di guerra italiani.
Presieduta da Luigi Gasparotto, la commissione prende in esame oltre trecento casi ed arriva ad iscrivere nella lista 41 persone, di cui 33 responsabili di crimini commessi durante l’occupazione della Jugoslavia: fra questi figurano generali dell’esercito come Mario Roatta, Alessandro Pirzio Biroli, Mario Robotti, Gastone Gambara, e i vertici dell’amministrazione civile fascista come Francesco Giunta e Giuseppe Bastianini, governatori della Dalmazia, o come l’alto commissario della Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli.
Concluse le istruttorie, i processi potrebbero iniziare già all’inizio del 1948, ma tutto viene bloccato, perché in realtà non si ha alcuna intenzione di procedere.
Dopo la rottura politica fra Tito e Stalin (giugno 1948), la Jugoslavia cessa di fare pressioni per ottenere la consegna dei criminali di guerra italiani. Politicamente la questione è così risolta, ma resta formalmente l’obbligo da parte italiana di condurre i processi presso la magistratura militare nei confronti degli iscritti nella lista della commissione Gasparotto.
La soluzione viene trovata ricorrendo all’art. 165 del codice penale militare di guerra, che condiziona la conduzione dell’azione penale da parte italiana al vincolo della reciprocità, ovvero alla disponibilità della controparte, cioè la Jugoslavia, a perseguire gli jugoslavi responsabili di crimini contro gli italiani.
Naturalmente Tito non è disposto a processare i suoi per le foibe.
Dunque, nel 1951 tutte le inchieste vengono chiuse senza andare a processo.
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