A Gonars, in provincia di Udine, i deportati vivono in baracche, ma soffrono anche loro la fame.
La denutrizione spalanca la porta alle malattie e così, nonostante l’impegno profuso da alcuni membri della guarnigione, a morire sono inoltre 500, fra i quali 70 bambini di meno di un anno, nati e deceduti in un campo di concentramento.
Simile, su scala ridotta, è la situazione nel vicino campo di Visco.
«… Noi siamo appena vivi dallo scarso cibo; poi “creperemo” dal freddo nelle baracche, perché siamo senza la stufa. Siamo fortemente indeboliti, fa freddo, non abbiamo sangue. La gente comincia a gonfiarsi e muore. Non so che sarà di noi. Se non ci lasciano andare moriremo tutti, lasceremo le ossa in Italia …. Siamo nudi e affamati, finiremo a perire…»
Dalla lettera censurata di un deportato a Gonars
«[…] Ora siamo nelle baracche, dove moriamo dal freddo e dalla fame.
Vi scongiuro di mandarmi qualcosa da mangiare. Mia figlia Milenka è morta in Arbe; era soltanto pelle ed ossa; il 31 dicembre è morto pure mio padre, con altri 12 uomini.
Liberaci da questo campo, dal Golgota della nostra vita…»
Dalla lettera alla famiglia di una deportata nel campo di Gonars
«Poi l’addetto ai fagotti, un militare qualsiasi, ci diede finalmente i nostri fagotti. E dietro a lui stava un’autoclave adibita per disinfestare i nostri vestiti, i nostri stracci e i nostri fagotti. Abbiamo dovuto spogliarci del tutto. C’era una stanza grande con delle panche e da lì si entrava nei lavatoi, forse nelle docce. Là a quel punto mi sono detta...., ci ho ripensato tante volte, ma ancora non riesco a spiegarmelo questo sentimento, mi sono detta...., oppure ho chiesto al soldato, ma dove metto questo bambino, cosa ne faccio di lui? E l’addetto all’autoclave, si vedeva che gli facevamo pena, disse di metterlo lì sul mucchio, di posarlo sugli stracci per quel tempo nel quale avrei fatto la doccia, ed io......, io l’ho messo proprio lì sopra il mucchio. Sono entrata poi con il mio bambino più grande lì dentro dove c’erano le docce, eravamo tutti lì dentro, c’era una grande confusione e allora, non so sarà forse il sentimento di una mamma per il proprio bambino, non so rispondermi ancora oggi, so che improvvisamente ho sentito una fitta al cuore e tutta bagnata e nuda sono uscita dalle docce e sono corsa indietro fino al mucchio di stracci che però non c’era più. Mi si fermò il cuore. Vidi il soldato che aveva posato tutto il mucchio di stracci insieme al bambino nell’autoclave. Non so se l’aveva messo dentro intenzionalmente, credo di no, ma forse pensava fossero solo stracci e nient’altro. Alla chiusura del coperchio il bambino pianse. Io ho urlato come una pazza e allora lui l’ha tirato fuori e me l’ha dato in braccio questo mio povero bambinetto. Io non so cosa abbia fatto poi, non so come sia riuscita ad arrivare nella baracca, so solo di aver stretto quel mio bambino al petto e di essermi ritrovata nella baracca come per miracolo.[…]Poi è morto questo mio bambino appena nato. Mi è morto in braccio questo mio Anton, provato dalla fame, dalla sete, dal freddo. E quando è morto questo esserino era solo una sembianza di bambino, solo ossicini, era magro, magrissimo, come un coniglietto. Non chiuse gli occhi per due giorni e poi morì. E dire che proprio quel giorno per la prima volta gli avevano dato in quel piccolo recipiente dove si beveva il caffé, un po’ di latte freddo. Pensate, ha avuto per la prima volta il latte proprio il giorno della sua morte. Poi l’hanno portato via, ma io ero completamente esausta, così stanca che non potevo accompagnarlo neanche fino alla porta della baracca e sono rimasta là, e ancora adesso questo desiderio spaventoso, il desiderio di quella volta, i ricordi di quei giorni terribili, quando ho....., nei quali ho desiderato che i miei due bambini morissero prima di me, mi perseguita»
Testimonianza di una deportata trasferita dal campo di Arbe a quello di Gonars
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